Unicità di Crippa



Unicità di Crippa

[di Nicoletta Colombo]

E’ a tutt’oggi inconcepibile la disattenzione della cultura “ufficiale” nei confronti di alcuni esponenti del nostro patrimonio artistico del secolo XX, del resto ormai storicizzato, tra cui va ricordata la personalità di Roberto Crippa (1921-1972), autore in vita famosissimo e internazionalmente accreditato. Basta scorrere in catalogo il suo straordinario curriculum espositivo, per ritrovarne le mostre personali a partire dai primi anni Cinquanta, quando aveva trent’anni, in sedi autorevoli disseminate tra Parigi, Dortmund, Leverkusen, Stoccolma, New York, Tokyo, Washington, Aarau, Bruxelles, ecc.

L’artista, come è noto, scompariva nel 1972 a soli cinquantuno anni, in seguito a un incidente mortale occorso durante un’esercitazione di volo acrobatico, attività che lo appassionava insieme alla pittura. Cercava lo spazio, la conquista del cosmo, nella vita e nell’arte: catturava quote di universo alzandosi dalla pista dell’aeroporto di Bresso con il suo monomotore e ne duplicava il possesso sulle tele, dove le ricreava in vortici pittorici gestuali spiraliformi, ammatassati attorno a soli gialli, rossi, blu. L’arte aviatoria si rivelava preziosa per ampliare le visioni pittoriche, invero esclusive e uniche nel panorama artistico di quei miracolosi anni Cinquanta e Sessanta, decenni ricchi di fermento creativo a tutti i livelli.

La pittura di Crippa, spesso riferita dalla critica, non senza ragione, alle nuove correnti informali internazionali, (l’artista era andato giovanissimo a Parigi dove aveva conosciuto Victor Brauner; nel 1951-52 otteneva mostre personali alle gallerie Alexander Jolas e Stable di New York) va letta tuttavia in un’ottica evolutiva del tutto particolare, riportando i citati espressionismi astratti, tachisme, spazialismi, surrealismi e poetiche dell’ “oggetto” a una profilo esclusivo e individuale non esaustivamente autre. Il suo non era infatti un linguaggio informale tout court, quanto piuttosto una declinazione dello Spazialismo di casa nostra dimensionato sui contenuti, sulle qualità fisiche di un personale mondo pittorico intercettato nelle significative titolazioni a base di Soli, Meteore, Paesaggi solari, Paesaggi lunari, Spirali, Totem, Uccelli mitologici, Icari, Animali totemici, ecc.

La morfologia delle spirali, stante la indubbia matrice gestuale, respingeva la violenza casuale del dripping statunitense, espressione che l’artista aveva conosciuto in loco nel biennio 1951-’52, trascorso a New York. Crippa non scagliava barattoli di colore sulle basi, ma sviluppava le linee pittoriche in flessuosità sapienti, misurate sulla conoscenza del medium e della composizione “classica” che gli veniva dall’aver frequentato Brera i corsi dei maestri Funi, Carrà e Carpi. Manualità e formazione concettuale da faber, da artefice della pittura, che tuttavia asseriva un instancabile vitalismo sperimentale, dinamico, attraversato da varie contaminazioni, non ultima quella surreale, giuntagli in traccia dalla vicinanza di Sebastian Matta con cui esponeva nei primissimi anni Cinquanta, da quella di Enrico Donati, frequentato dal ’51 a New York e dal già citato Victor Brauner, con cui in epoca più matura avrebbe realizzato alcune opere a due mani. La spinta avanguardista che lo animava era suffragata dagli incoraggiamenti di più anziani e famosi colleghi frequentati a New York, da Marcel Duchamp a Max Ernst, con i quali aveva esposto alla Jolas Gallery, traendone fama e onori, anche collezionistici. Aveva solo trent’anni eppure sue opere erano entrate in raccolte pubbliche e private prestigiose a Dallas, Detroit, New York, Chicago. In Italia nel frattempo, con Fontana, Dova, Peverelli e gli altri “spaziali”, attivi dai finali anni Quaranta attorno a Carlo Cardazzo e alla milanese Galleria del Naviglio e sostenuti da imprenditori culturali di area ambrosiana, quali Filippo Schettini e Arturo Schwarz, Crippa ampliava la sua fama e la fitta attività espositiva tra Biennali di Venezia e spazi museali e privati.

Lo slancio fisico e sportivo che balza in primo piano nelle sue opere si traduceva, dopo la fase sottilmente raffinata delle spirali (o “discorsi nello spazio”, come le denominava), in una ricerca di condensazione materica, che si manifestava a partire dal 1953 in un inturgidimento del flusso segnico, operato tramite la spremitura diretta dei tubetti sulle tele. I grafemi spiraliformi assumevano una succosità corporea, squillante di materia e di colore.

Da lì il passo era breve verso la suggestione surreale di morfologie simboliche e totemiche di insinuazione tattile e pseudo-scultorea, segnate da un primordialismo arcaico che molto rispecchiava l’amore di Crippa per la scultura africana, di cui era collezionista. Nei primi anni Cinquanta si assisteva del resto, nel contesto internazionale, da un lato alla germinazione delle poetiche liberatorie nell’opera-simbolo di recupero polimorfico, para-surreale, di memoria africana o oceanica, dall’altro a una pittura esistenziale e visionaria (si pensi alla cubanidad di Wifredo Lam, amico e collega di Crippa e, in parallelo, alle biomorfiche ossessioni esistenziali di Graham Sutherland, che il Nostro aveva visto alle Biennali del ’52 e ’54).

Nei totem pittorici Crippa ribadiva la propria individualità ed espungeva sia la dimensione esistenziale alla Sutherland, sia le sigle oscuramente sciamaniche nel segno di Lam, per affermare la proiezione futuribile di un’umanità di galassie tutte da esplorare, abitate da ominidi robotici, meccanomorfi, affatto angoscianti perché sottilmente ironici e spiazzanti. Nella successiva crescita della materia che, dai finali anni Cinquanta fino alla metà dei Sessanta lievitava dai fondi, ora non più dipinti ma assemblati in rugosità polimateriche stratificate (denominate con umiltà dall’artista “collage”), si confermava una rinnovata sperimentazione sulla traccia new dada e nouveau-réaliste. Poco a che fare con la poetica di assemblaggio degli oggetti di rifiuto rastremati tra gli scarti quotidiani da Kurt Schwitters, esponente dadaista, e ugualmente diverso il percorso segnato dalle deiezioni esistenziali di una materia combusta e invalidata da Alberto Burri, come di altro segno apparivano i materiali consunti adottati da Antoni Tapies, che li proiettava in dimensione trascendente.

I legni, le cortecce, i sugheri imponenti di Crippa esaltavano il trionfo della materia in senso costruttivo e ottimistico. Erano il canto di un “costruttore”, insieme architetto, fabbro e artigiano, creatore di una modernità che andava proponendo nuovi mondi, popolati da teste, da animali fantastici e metamorfici, campiti entro cieli di amiantite che incardinavano paesaggi galattici. Il cosmo di Crippa si proponeva incontaminato, ancestrale eppure avveniristico, nuova immagine dell’universo, non distante dagli universi geologici di pietre e legni di Key Sato, che il Nostro però dilatava su stilizzazioni iconiche dalla dimensione di almeno due metri per lato, suggestive dell’affermazione di un epos moderno.

Conquistato il protagonismo strutturale dell’oggettualità, era tempo di cambiare rotta e procedere nell’instancabile cammino della ricerca. L’artista si ritraeva dalla potenza fisiologica e scultorea dei materiali e dalla metà degli anni Sessanta scopriva la preziosità mentale dell’amiantite, dapprima nera e giocata sui rilievi monocromi, successivamente rialzata in giochi geometrici di colori puri e stagliati in assemblaggi multicolori. Aviogetti allusivi, ironici aquiloni, soli tagliati da nuvole ondivaghe profilavano cromie pure e squillanti. Non si trattava di pop art, come suggerito da voci critiche che citavano l’artista americano Ben Shahn quale precursore della tecnica all’amiantite.

Crippa stava perseguendo l’esplorazione dello spazio con nuove citazioni di paesaggi, di visioni cosmiche oniriche e affabulate, interrogando una materia affascinante e misteriosa. Perseverava in quel sogno sconfinato e risucchiante, per cui valeva la pena annullarsi. Non era un caso che, a due anni dalla morte, dichiarasse: “In fondo, l’arte è per me come la magia per il mago: Gilles de Raìs le offrì tutto, sempre di più, in una specie di furore demoniaco e autodistruttivo, fino a darle tutto se stesso: unico vero modo per esserlo veramente, se stesso”. (R. Crippa, Io, erratico vagante, in “Carte segrete”, Rivista trimestrale di lettere e arti, anno IV, n. 13, gennaio-marzo 1970, pp. 16-24)

Mostra n° 700 della Galleria Cortina, dal 1962